Vavassori: “Automotive danneggiato da Dieselgate, ora tocca rimediare”

Vavassori: “Automotive danneggiato da Dieselgate, ora tocca rimediare”

Intervista a Roberto Vavassori, nuovo presidente ANFIA, per ascoltare il suo parere sul presente e futuro dell'automotive a livello italiano e globale

21 Luglio 2023 - 11:58

Roberto Vavassori, Chief Pubblic Affairs Officer e membro del Board di Brembo, dal 20 giugno scorso è anche il nuovo presidente ANFIA, l’Associazione nazionale Filiera Industria Automobilistica. Eletto a seguito dell’assemblea generale degli associati dell’ente, succede a Paolo Scudieri e manterrà la massima carica per il quadriennio 2023-2026. Lo abbiamo incontrato e intervistato per un commento sul momento che il settore sta vivendo e le priorità da seguire per mantenere alta la competitività dell’Italia nel complesso panorama Automotive Europeo e non solo.

Lei è stato già presidente di ANFIA dal 2012 al 2015. Cosa è cambiato rispetto a quel periodo?

In primis, sono cambiate le vetture. Mi viene da pensare alla dotazione di sicurezza, che come CLEPA abbiamo fatto adottare in modo generalizzato. Poi, parlando di cambiamenti, si sono progressivamente ridotte le emissioni delle auto ed è anche cambiato in modo rilevante il mix sulle alimentazioni, anche solo tra benzina e diesel. Il panorama è diverso. Inoltre, guardando da una prospettiva più ampia, sono cambiati anche altri scenari. La Cina produceva 15 milioni di veicoli e ora ha superato quota 26 milioni. Per quanto riguarda l’Italia, nel 2012 producevamo 397.000 vetture, ora siamo a 470.000. In questi 10 anni abbiamo consolidato. E in mezzo c’è stato anche il Dieselgate, con tutti i problemi di ‘mistrust’ ad esso legati. Infine, nel 2012 ANFIA festeggiava i 100 anni. Oggi ne abbiamo 10 di più ma siamo ancora una signora giovane e pimpante che ha più che triplicato il numero degli associati”.

Parlando di Dieselgate. Lei durante la tavola rotonda di insediamento ha detto: “Io lo chiamo più Volkswagengate”. Conferma?

Sì, è vero. Le spiego perché. A sapere di quello che stava succedendo erano non più di 200 ingegneri e tecnici, a dire il vero non solo del gruppo di Wolfsburg. Questi pochi ingegneri hanno però gettato discredito su 12 milioni di lavoratori dell’industria automotive europea. Questo deve dare l’idea della responsabilità con cui si devono fare le cose. Nei miei anni da presidente CLEPA, dopo la prima avventura ANFIA, quando ci si recava a Bruxelles o si entrava con una schuko sulla testa – alias pro-elettrico – o si era guardati con sospetto. Il Dieselgate ha fatto malissimo all’Europa, che a seguito dello scandalo è diventato un continente di rincorsa, dopo un secolo in cui era stato un continente di preminenza”.

Vavassori insediamento

In un’intervista del 2015 lei disse che in Italia non si poteva andare avanti con 1,4 milioni di veicoli venduti all’anno. Oggi, purtroppo, siamo tornati agli stessi volumi. Come si supera questo stallo?

Uno degli obiettivi di questo mandato è quello di portare un consolidamento della produzione automobilistica e del suo indotto in termini di componentistica, che rappresenta l’80% del valore di una vettura. Se la filiera automotive italiana non è scomparsa è perché nel frattempo abbiamo imparato ad attraversare le Alpi e a diventare almeno un po’ più europei. Ma la crescita, nei prossimi 10 anni, avverrà soprattutto in Asia e in Cina. ANFIA deve aiutare gli associati a pensare in grande anche se non si è grandi a livello di dimensioni e a ragionare a livello mondiale, concentrandoci su quei Paesi dove si creeranno maggiori opportunità”.

Ma come facciamo a essere amici e allo stesso tempo concorrenti degli altri Paesi dell’automotive europei?

In realtà noi dobbiamo guardare oltre l’Europa. Prendiamo la Cina, che vale circa un terzo del mercato mondiale. È un Paese irrinunciabile e noi dobbiamo essere buoni partner. Poi, a livello europeo, si dovrà lavorare per rendere più corretta la concorrenza tra le aziende occidentali e quelle cinesi. A livello di dazi, ad esempio, sarà necessario cercare un pareggiamento delle tariffe tra import ed export, poiché oggi sono diverse e avvantaggiano la Cina. Poi si dovrebbe lavorare su standard comuni per misurare le emissioni sia sulla produzione sia sui consumi delle auto. Dobbiamo lavorare in estrema trasparenza, in modo da chiarire anche gli aspetti più spigolosi. Io vedo l’Europa come una squadra di 27 Paesi che con fatica trovano sintesi e portano avanti il processo di crescita tenendo conto di interessi anche molto diversi tra loro. Noi ci troviamo ad avere mercati molto importanti come quello tedesco con i quali dobbiamo lavorare per ovvi motivi, ma allo stesso tempo vediamo gli amici tedeschi che, nel rispetto delle regole europee, aiutano i loro produttori. Lo stesso accade in Francia. In Italia bisogna capire che si deve costruire una competitività a livello di distretto, cercando una consapevolezza maggiore sulle cose che sappiamo fare meglio per espandersi all’estero e parlando con il Governo per migliorare quegli aspetti in cui non siamo tra i migliori. Penso all’energia o alla logistica”.

La sensazione è che ci siano Paesi europei emergenti che stanno crescendo molto velocemente e che l’Italia, che ha un background fortissimo sull’auto, non stia andando allo stesso ritmo. Un esempio su tutti la Polonia che attrae tanti investimenti automotive in produzione, IT ed è persino seconda Gigafactory mondiale. È d’accordo?

Io ricordo la Polonia come un Paese con forte disoccupazione e bassi salari; oggi è cresciuta tantissimo e sicuramente non è più il Paese di una volta. Certo oggi salari e costi sono cresciuti, quindi ci potrebbe essere un effetto “tunnel”. Da tanti anni è in corso un ‘effetto chiocciola’. Nell’auto si è partiti dai Paesi storici: Italia, Francia e Germania. Poi ci si è rivolti a ovest, in Spagna e in Portogallo, ora, come in una specie di spirale, si va verso est. In questo giro, tra aiuti europei, fiscalità più bassa, minor costo della manodopera, costo dell’energia concorrenziale, alcuni Paesi, che tra l’altro erano logisticamente anche favoriti per la loro vicinanza alla Germania, sono potuti crescere in modo consistente. L’Italia in questo deve costruirsi una nuova attrattività. Come facciamo? Concentriamoci sulle lavorazioni ad alto valore e delocalizziamo le cose più semplici. In questo modo si possono avere benefici”.

In questo momento le Case sono alle prese con due fenomeni, la transizione verso l’elettrico e il rallentamento della produzione dovuta ai clienti che però non acquistano le auto elettriche. Come vengono impattati i fornitori da tutto questo?

Il rallentamento della produzione, chiaramente, si ripercuote sull’indotto. Non esiste un contratto tra Casa automobilistica e fornitore che non preveda una clausola per cui le quantità richieste cambino in base alle esigenze della produzione. Quindi, da questo punto di vista, i costruttori sono in parte tutelati e la catena paga le conseguenze di questa forte incertezza del mercato. Sulla frenata delle vendite a causa della transizione, il vero problema è che nell’opinione pubblica c’è tanta confusione e incertezza. Mi sembra che le persone si muovano come l’acqua all’interno di una tanica che viene sballottolata a destra e sinistra. La situazione è questa: il mercato è pieno di belle auto, auto termiche, ibride, plug-in o elettriche. Non c’è mai stata così tanta scelta. Come si fa a dire che non si compra un’auto nuova perché si ha paura del futuro? Le auto termiche, se le cose vanno come sembra che andranno, saranno vendute fino al 2035 e, da lì in poi, potranno circolare fino al 2050, 2060 etc. Stiamo parlando di quasi 3 decenni. Se invece si vuole provare qualcosa di più moderno, si prende una Plug-In per testare la guida in elettrico e non avere l’ansia da ricarica. Ogni scelta deve essere fatto in tranquillità, ma non c’è giustificazione tecnica per rimandare l’acquisto”.

A proposito di 2035: lei crede che l’orientamento della Commissione potrà cambiare?

La speranza c’è. Ci sono i biocarburanti e gli e-fuel, anche se ci sono delle criticità legate a queste due alimentazioni. Ma la cosa più importante è, di nuovo, l’opinione pubblica. Gli automobilisti devono informarsi, capire cosa preferiscono in base alle loro esigenze e le loro abitudini, e trovare la soluzione migliore per loro. Una volta che il mercato avrà capito cosa cerca, le vendite si adegueranno trovando un mix corretto”.

La sua critica alle attuali celle agli ioni di litio e le Gigafactory che le produrranno ha destato qualche polemica, come risponde?

Da sempre ho detto che le celle cilindriche 18650 (18 mm di diametro e 65 mm di altezza) non erano la soluzione ideale per una batteria per auto elettriche. Ne servivano fino a 7.000 per realizzare la batteria di una sola vettura. Adesso le celle cilindriche sono più grandi e, per una batteria di pari capacità, se ne usano la metà. Qualcosa sta cambiando ma, secondo me, siamo ancora a un livello di sviluppo iniziale. Ecco perché penso che cambieranno anche le Gigafactory per produrre queste celle, che però non potranno adeguare metodi e processi produttivi perché dovranno ancora ammortizzare i costi sostenuti. Io credo che in 10 anni supereremo il tema del litio e troveremo soluzioni nuove. Quindi, è rischioso sovrainvestire in tecnologie che saranno superate. Guardiamo ai pannelli solari. All’inizio ne abbiamo comprati moltissimi di prima generazione, con basso rendimento, prodotti in Cina. Ora ce ne sono di migliori, ma (per una questione di ammortamento dei costi ndr) noi ci siamo vincolati per 20 anni a una tecnologia obsoleta e siamo indietro. Non facciamo lo stesso errore: procediamo per gradi e seguiamo i progressi nella chimica, nella densità energetica, nell’architettura. È un modo utile per avere prodotti sempre aggiornati”.

In Europa sta arrivando una nuova legislazione sulla protezione dei dati. Cosa pensa di questo Data Act?

Una condizione di base per la protezione dei dati dovrebbe essere quella di firmare un documento al momento dell’acquisto di un’auto in cui si dà in modo trasparente e chiaro il consenso a cedere le informazioni personali ad una entità ben definita. È un punto di partenza necessario e lo abbiamo chiesto alla Commissione Europea. Oggi non c’è consapevolezza da parte del consumatore finale. Il problema è che ci sono 27 stati e numerose categorie di soggetti che hanno interessi diversi e quando troveranno un accordo il mercato sarà andato oltre. C’è ancora molto lavoro da fare”.

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