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Trasmissione Covid all’aperto e PM10: perché è impossibile contagiarsi

Il rischio di contagio Covid all’aperto in uno studio di Cnr e Isac a Milano e Bergamo mette in discussione i metodi di previsione dei contagi per via aerea

11 Gennaio 2021 - 12:01

Il legame tra Covid all’aperto e particolato nell’aria è stato oggetto di uno studio congiunto tra Isac, Cnr e Arpa Lombardia. Le conclusioni dei ricercatori pubblicate anche sulla rivista Environmental Research riguardano alcune delle domande più complesse. Quanto è probabile il contagio del Covid-19 per via aerea all’aperto in assenza di assembramenti? E’ vero che nelle città con maggiore inquinamento atmosferico, il particolato può aumentare i rischi di contagio? Le conclusioni interessanti pongono indirettamente degli interrogativi anche sull’obbligo della mascherina all’aperto, in assenza di assembramenti. Ma prima di fare deduzioni affrettate, ecco nel dettaglio qual è il rischio di contagio all’aperto secondo lo studio a Milano e Bergamo.

COVID ALL’APERTO: IL METEO INFLUENZA IL CONTAGIO?

Milano e Bergamo sono le città dove la pandemia ha manifestato il maggior numero di focolai, anche se molti degli aspetti legati al Covid-19 sono ancora oggetto di studi scientifici. Ad esempio, non si sa ancora perché la propagazione dei contagi sia così irregolare tra le zone geografiche e di conseguenza quali sono i fattori più influenti. Lo studio ha cercato una risposta sul modo in cui il clima e il particolato presente nell’aria influenzano la trasmissione airborne (cioè attraverso particelle aeriformi) del Covid-19. Per farlo i ricercatori hanno analizzato i dati relativi agli ambienti esterni delle città di Milano e Bergamo e stimato la probabilità di contagiare il virus all’aperto. “Tra le tesi avanzate, vi è quella che mette in relazione la diffusione virale con i parametri atmosferici, ipotizzando che scarsa ventilazione e stabilità atmosferica e il particolato atmosferico presenti in atmosfera in elevate concentrazioni nel periodo invernale in Lombardia, possano favorire la trasmissione in aria (airborne) del contagio”, spiega Daniele Contini, ricercatore di Cnr-Isac (Lecce), in un comunicato del Cnr.

COVID ALL’APERTO: QUANTO RESISTE IL CORONAVIRUS NELL’ARIA?

Prima di passare ai dati dello studio sulla probabilità di contagio da Covid all’aperto, il rapporto fa una precisazione da non sottovalutare: “La probabilità di trasmissione per via aerea dipende da diversi parametri, ancora piuttosto incerti, come le concentrazioni di aerosol carichi di virus, la vitalità e la durata e la dose minima necessaria per trasmettere la malattia”. Ciò significa che la probabilità di contrarre il Coronavirus dipende anche dalla permanenza in luoghi comunitari (sia esterni che interni). Qui infatti è più facile entrare a contatto con fonti intense di infezioni e una dispersione e trasporto trascurabili. A proposito di dispersione e trasporto delle particelle, hanno un importante ruolo all’aperto i parametri meteorologici. Secondo un altro studio sulla permanenza del Covid-19 in atmosfera temperatura, umidità e radiazione solare UV possono degradare il virus. Lo studio relativo alla durata della SARS-CoV-2 nell’aria invece ha rilevato un’emivita di circa 1 ora e circa 3 ore in condizioni controllate in laboratorio.

Mezzi pubblici Fase 2

CORONAVIRUS NELL’ARIA: I RISULTATI A MILANO E BERGAMO

Lo studio sul contagio da Covid all’aperto a Milano e Bergamo ha considerato come condizioni di analisi, uno scenario peggiore (WCS) e uno migliore (BCS). Nello scenario peggiore ci sono condizioni di miscelazione dell’aria, altitudine (minore) e percentuale di contagiati più svantaggiose. Al contrario invece per lo scenario migliore. I dati meteorologici derivano da una media dei rilievi di 3 stazioni Arpa Lombardia. Mentre il numero di contagi considerato dallo studio è quello ufficialmente comunicato dal Ministero della Salute. I grafici sotto mostrano le concentrazioni atmosferiche medie esterne di Covid, stimate a Milano e Bergamo. “I risultati in aree pubbliche all’aperto mostrano concentrazioni molto basse, inferiori a una particella virale per metro cubo di aria”, prosegue Contini. I risultati dello studio quindi suggeriscono che: “Ipotizzando una quota di infetti pari al 10% della popolazione (circa 140.000 persone per Milano e 12.000 per Bergamo), sarebbero necessarie, in media, 38 ore a Milano e 61 ore a Bergamo per inspirare una singola particella virale”. Clicca l’immagine sotto per vederla a tutta larghezza.

CORONAVIRUS E PM10: L’INQUINAMENTO NON AUMENTA I CONTAGI

Questi dati si riferiscono chiaramente a zone a bassa frequentazione. “La maggiore probabilità di trasmissione in aria del contagio, al di fuori di zone di assembramento, appare dunque essenzialmente trascurabile”, continua Contini. “Pertanto, allo stato attuale delle ricerche, l’identificazione del nuovo coronavirus in aria outdoor non appare un metodo efficace di allerta precoce per le ondate pandemiche”. Ma non solo, lo studio considera anche la correlazione tra particelle in sospensione capaci di trattenere il Coronavirus e probabilità di contagio. “La probabilità che le particelle virali in atmosfera formino agglomerati con il particolato atmosferico pre-esistente, di dimensioni comparabili o maggiori, è trascurabile anche nelle condizioni di alto inquinamento tipico dell’area di Milano in inverno”, conclude Franco Belosi, ricercatore Cnr-Isac di Bologna. “È possibile che le particelle virali possano formare un cluster con nanoparticelle molto più piccole del virus. Ma questo non cambia in maniera significativa la massa delle particelle virali o il loro tempo di permanenza in atmosfera. Pertanto, il particolato atmosferico, in outdoor, non sembra agire come veicolo del coronavirus”.

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